lunedì 11 giugno 2012

COLPEVOLE D'OMICIDIO

Questa mattina verso le quattro mi sono svegliato dopo una delle mie solite notti infami.
Dopo ore (o presunte tali) in cui mi difendevo per provare la mia innocenza e scagionarmi dall'accusa di omicidio.
Non sapevo di chi, non sapevo perché ma quello che nel sogno era fin troppo chiaro, era che televisione- media- amici- estranei e famiglia, tutti quanti mi ritenevano colpevole senza margine di dubbio.
Mentre la sola cosa che io sentivo e sapevo era di non avere nulla a che fare con tutta quella storia.
Solo verso le quattro sfinito e sconfitto ho salutato tutti gli accusatori e mi sono liquidato con il pretesto sincero di andare a fare la pipi.
Così mi sono svegliato, o per meglio dire alzato, e ho proceduto senza troppo impegno nello sbrigare i miei bisogni per poi farmi una passeggiata nel vialetto dell'ingresso.
Un po' per scongiurare il ritorno in aula una volta chiusi gli occhi, un po' per gestire e addomesticare il forte disagio di una così profonda immedesimazione.
Ero davvero sconvolto in particolare dall'incapacità di farmi credere e dalla brutale crudeltà con cui mi sentivo attaccato e giudicato.

Quando un messaggio non passa è un tremendo fallimento.
E' come se tutto quello che hai fatto non fosse servito a nulla. Non fosse nemmeno stato fatto.
E per quanto si possa essere forti e dignitosi nel proprio operato, l'incomprensione è una mutilazione.

Non trovavo alcuna ragione per un sogno tanto aggressivo.
Poi a mente lucida ho trovato qualche pezzo che si incastrava senza forzare.
In questi giorni sono stato attaccato.
Una persona che mi conosce appena ha visto le mie fotografie delle gare e mi ha scritto di quanto fossi patetico io e tutto questo ambiente che pensa solo all'estetica e all'apparire.
E poi e poi...
Mi sono talmente MALTRATTATO nel rispondere, che forse ho una lieve speranza di essermi spiegato e aver chiarito almeno con questa persona, almeno fino alla prossima.
Come se non bastasse un paio di giorni dopo un'ironica amica di sempre mi chiama "RE DEI VANITOSI".
Lo ammetto- per quanto ci abbia pensato e ripensato e ripensato- mi ha ferito.
Ho inteso il fare giocoso ma non ho retto, forse troppo scoperto e provato da un lungo periodo di sacrificio e impegno e serietà.
Perché anche se alla fine uno ritiene il tutto una cazzata ridicola, questo è stato! Un enorme sforzo e un impiego di energie fisiche e mentali non comuni per me omino comune.
La punta di vero dolore, l'ago sottile, è stato realizzare che tutto quello che ho messo in questa cosa non è minimamente passato, specie dove avrei tanto voluto. Per poter condividere una mia gioia. Una rarità per chi mi conosce e sa che non so provare nè leggerezza nè gioia nè pace.
Se sceso dal palco, nell'istante successivo mi sono chiesto smarrito: E ADESSO? Forse speravo di allungare di qualcosa il momento attraverso la condivisione. Invece... un bel cazzo!
E la mia coscienza da qualche giorno ancora non mi parla. Vive tra scosse di terremoti e stupore nelle indifferenze.

Quando ero bambino abitavamo in campagna e io giocavo per ore da solo a pallone lanciando la palla contro un muro. Taciturno, fedele, corretto nel passaggio.
Portavo da poco gli occhiali ma non era un problema per nessuno in quel mondo li.
Poi a undici anni i miei genitori si sono comprati casa e ci siamo trasferiti più al centro del piccolo paese.
Ho potuto avvicinarmi all'oratorio, giocare con altri ragazzini per quanto più rumorosi scorretti e crudeli del mio amico muro.
Provai a giocare nella squadra di calcio, ero un'ala sinistra bellina, ma mi toccava togliere gli occhiali e io mi sentivo perduto.
Sentivo mille voci e non capivo bene perché i volti e i tratti non mi arrivavano chiari da distinguere un sorriso da una smorfia.
Se non ero sulla fascia della panchina con l'allenatore a tiro, il panico totale.
Così basta! Restai confinato nel campetto dell'oratorio con i miei occhiali ben saldi, con un paio di cambio lenti l'anno e qualche bestemmia di mio papà, e tante di quelle partite che duravano interi pomeriggi.
Ma tutto qua.

Quando facevo la quinta elementare partecipai ai giochi della gioventù.
La mia maestra era una donna stoica e ci preparò per mesi a questo evento, come per anni e da sola ci preparò in tutte le materie con grande passione e determinazione.
Io correvo gli ottocento metri che all'epoca sembravano davvero un bel po'.
Naturalmente ero il più piccolo di tutti, un puntino bianco.
Pronti-partenza-via.
Restavo nel gruppetto di testa come mi era stato insegnato, tenevo il tempo, respiravo preciso.
Come non mi era stato insegnato, ma come sentivo di poter fare, mi allungai ben prima di quanto opportuno.
Ma a volte le cose funzionano e senza la minima incertezza tagliai il traguardo senza voltarmi e arrivai come ero partito. Semplice e solo.
Avrei dovuto comprendere il mio destino ancora quel giorno, ma ero ragionevolmente piccolo per ignorarlo.
Le batterie che avevano corso erano tre.
Il vincitore e il secondo della prima batteria fecero un tempo migliore del mio aggiudicandosi l'oro e l'argento. E il vincitore della seconda batteria con il terzo miglior tempo si prese il bronzo.
A me una spilla per aver partecipato.
Potremmo discutere ore o un solo minuto sui morti di fame che organizzarono la manifestazione offrendo tre medaglie da due soldi invece che premiare più ragazzini possibile, ma già così funziona...

Tornato dal militare il mio difetto visivo era stabile, così come pensato e sognato da anni, venni operato con il laser potendo liberarmi di quei fedeli amati-odiati occhiali.
Solo una volta tolti, solo una volta esposti gli occhioni assurri in vetrina, mi resi conto di quanto mi avevano tolto.
L'ascesa di popolarità in termini di F... in vari termini, non fu una vera corrispondenza in felicità e rivincita.
Niente affatto! Piuttosto una dolorosa presa di coscienza su me stesso e sulla pochezza delle persone.
Improvvisamente il mio ruolo di eterno amico veniva sdoganato in ben altre direzioni.
Prese e prese eccome, ma sempre e comunque da sconfitto.

A seguire (e inseguire), anni buttati! Come la scuola, come il lavoro buono solo per i soldi e niente altro.
Anni da panchine, da stupidera, da vandalate.
Conservando quel fondo di diversità anche tra i diversi.
Un po' il più buono tra i cattivi. Ma pur sempre un cattivo.

Nel 2001 mi allenavo già da tempo con una squadra di calcio a cinque che partecipava al campionato provinciale a livello agonistico.
Mi invitavano sempre a giocare ma con mille scuse rifiutavo l'impegno, l'adrenalina, il metterci la faccia.
Per paura. Semplicemente e sinceramente per una fottutissima paura.
Nel 2001 scattò qualcosa e accettai. A loro serviva una punta di riserva e a me un'occasione per tagliare i ponti con una vita non mia che prima mi aveva cullato e protetto ma come ogni inganno aveva invece rubato e soffocato e ci provava ancora anche mentre me ne andavo.
Ero l'uomo del secondo tempo (perché non volevo entrare se non come un cambio inosservato) e segnai venti goal in quattordici partite.
Compreso quello dell 1 a 1 nella finale per la vittoria del campionato che perdemmo poi ai rigori.
Mio papà veniva a vedermi di nascosto perchè io non volevo mai nessuno e forse pensava e forse aveva ragione, che mi avrebbe ancora agitato anche se ero esageratamente "adulto" per queste cose.
Ma quello che sembra un racconto finalmente lieto e di rivincita, torna presto sui passi più consoni.
In questa esperienza mi lacerai prima un legamento della caviglia e subito dopo una costosa lesione al retto del quadricipite che ancora oggi ha suoi giorni di gloria.
Mio papà non venne più a vedere nessuna partita.
Nel frattempo avevo incontrato quella che sarebbe diventata mia moglie, inseguivamo il sogno di una casa, la mia famiglia non ebbe mezzi termini nell'opera di logorante persuasione sfociata in minacce per la mia incapacità di comprendere che con la palla per me doveva essere finita.
Andai ancora qualche volta di nascosco, con una giovane moglie disposta a coprirmi pareva possibile.(Le giovani mogli disposte amorevolmente a coprirti hanno vita più breve di un gatto in tangenziale).
Ma la continuità non potevo permettermela così quando giocavo era mezzo aulin prima e mezzo dopo, e quando rientravo a casa strisciavo, mentre la mattina dopo al lavoro piangevo cercando di apparire naturale e disinvolto.
Poi una sera mi spaventai sentendo un rumore un dolore.
Chi fa sport da sempre lo sa, il corpo parla e parla chiaro e non dice bugie.
Fine.
Beh... ogni tanto a giornate lunghe, dopo il lavoro mi fermo all'oratorio dove sono cresciuto e mi faccio "conoscere" da qualche adolescente nuovo nuovo che ne ha bisogno. Ma è tutto in qualche numero, qualche sorriso, qualche gimme five che non passa mai di moda.

Ma che giro ho fatto?
La palesta. I'amore mai abbandonato ma mai compiuto fino in fono.
Ma cazzo... che giro ho fatto?
Quello più lungo forse, quello più lento e onesto e tagliato fine fine per un'arringa come si deve.
Lo chiesi a me stesso tempo fa: Cosa spinge un uomo che si tiene la maglietta per ore anche al mare nei giorni assolati d'agosto, a gareggiare seminudo in una competizione di pose?
Sono stanco di rispondere e non mi serve più farlo.
Ho tentato per amore, per vero amore verso quello che mi muove.
Ma non è passato.
Purtroppo non è minimamente passato.
Posso solo dire peccato.
Le incomprensioni spingono al silenzio.
E il silenzio se hai cose da dire è una morte.
Ma non sono colpevole di omicidio. Non mi renderò feroce carnefice di me stesso.
E non permetterò che quello che mi muove si fermi morendo per la diffidenza e la superficialità rivenduta degli altri.
Certo, dopo e solo dopo aver dato tutto e più di tutto per provarci.

La mia coscienza mi odia e mi ama e resterà comunque al mio fianco, non posso in nessun modo preoccuparmi d'altro.


Giochi della gioventù.
Ma dove sono? Dove sono?
Ah si! Quel puntino bianco nel mezzo.








Arrivo.




Il brutto anatroccolo.










Con i miei genitori. Ma che belli erano qui, lo scopro solo adesso.









La mia classe e la mia super maestra.





Ecco dove giocavo da solo. Là dietro sicuro ad
aspettarmi, il mio amico muro.


Beh il fisico e il costume qui non erano un problema :)

Gara di salto in alto.
Niente di speciale, un terzo o quarto posto.
Ma ero alto 1.20cm e saltavo 1.21cm.
















Via gli occhiali, capelli da lasciar crescere come la consapevolezza.


Cena con alcuni amici bravi e sani.
Presto abbandonati per altri meno sani e meno amici.
E per fortuna che a quei tempi non esisteva nè modo nè abitudine di fare video da sparare in rete!








Le immagini delle mie gare che preferisco e alle quali davvero tengo?




Quelle in cui applaudo di cuore e con sincerità le persone migliori di me.
































Applaudo uomini e situazioni che ogni volta nella vita mi  superano e sconfiggono rendendomi un perdente, ma grazie
alle quali faccio di me un NON VINTO.






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